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Social network: ancora una volta una questione di consapevolezza

Consapevolezza vuol dire anche vedere le cose per quello che sono. Noi stessi, gli altri, la realtà. Abbiamo gli occhiali per mettere a fuoco la vista, per tutto il resto serve cultura e crescita personale.

Non voglio fare la classica ramanzina de “i social network sono il male”. Non lo sono. Ma un articolo su il Post  mi ha solleticato una riflessione.

Anche il contenuto condiviso con le migliori intenzioni non sempre porta a casa i migliori risultati. I social ci espongono ogni giorno a una quantità di informazioni non misurabile, e anche se lo fosse sarebbe un numero talmente enorme da non avere particolare rilevanza. Ne ha parlato Internazionale e i numeri sono, come dicevo, assurdi. 

Ora queste informazioni le dividerei, per intuito, in tre categorie.

La prima è il nostro campo. Argomenti di cui sappiamo molto o che sono il nostro pane quotidiano. I contenuti su tali argomenti sono a rischio zero. Nella peggiore delle ipotesi sono informazioni che già abbiamo o sono spunto di approfondimento. 

Poi abbiamo la nostra zona di interesse. Forse sono i contenuti più pericolosi, quelli in cui abbiamo una conoscenza superficiale, che ci attirano, ma su cui non abbiamo abbastanza conoscenza per avere una fruizione critica.

Nella terza categoria metto i contenuti alieni. Quelli che sono proprio fuori da ogni nostra conoscenza o che al massimo risvegliano qualche reminescenza da liceo, come la tettonica a placche (che sembra una brutta parola ma non lo è, perché è scientifica). 

Una generosa dose di consapevolezza

L’articolo de il Post suggerisce che la condivisione di contenuti sul tema della salute mentale è, da un lato, meritevole perché contribuisce a eliminare lo stigma e ad aumentare la consapevolezza sull’argomento. Dall’altro potrebbe esacerbare “l’ipocondria” e l’autodiagnosi su temi tanto spinosi quanto sfuggenti come la salute mentale.

Questo mi ha portato ad alcune riflessioni, riducibili a una sola, a ben vedere: anche nel fruire dei contenuti dei social network serve un massiccio impiego di consapevolezza. Occorre avere ben chiaro cosa sono i social network oggi, cosa contengono, come lo divulgano e soprattutto che servirebbe un disclaimer del tipo “non provateci a casa”.

Tutto questo potrebbe passare attraverso una cultura di base sul marketing, la comunicazione e l’uso dei social network, argomenti che, sulla base di una banalissima e inattendibile esperienza personale, non credo vengano approfonditi e neppure avvicinati dai più. 

I social sono una bolla digitale. È un tema trito e ritrito. Non ci espongono alle informazioni disponibili ma a quelle informazioni che “l’algoritmo” ha scelto per noi. I contenuti di cui fruiamo non sono “tutti” i contenuti ma solo quelli che ci fanno restare sulla piattaforma. 

Gli algoritmi sono sempre più efficienti e rapidi nel tracciare i profili degli utenti. Forse anche a causa della nostra poca attenzione alla privacy e alle varie (chilometriche) condizioni di utilizzo, riescono ad attingere a un numero considerevole di informazioni che ci riguardano. Tracciano un profilo esattamente come fanno gli agenti del FBI nelle serie tv quando cercano un serial killer. 

Sulla base del nostro profilo ci propongo e quindi fanno “vedere” i contenuti che, secondo l’algoritmo, massimizzano la nostra presenza sul social in questione. Questa è la bolla, è la sua magia e la nostra gabbia. Ci mostra quello che vogliamo e, per sottrazione, non ci mostra quello che non vogliamo.

Social network o social media?

La bolla nasce perché i social non sono quello che dovrebbero essere. Non so dire se non lo sono mai stati o se hanno smesso di esserlo. Ai tempi di MSN o MySpace erano certamente qualcosa legato alla comunicazione e alla personalità.

Oggi sono tutt’altro e anche di questo bisogna essere consapevoli. I social sono uno strumento per capire che prodotto vogliamo, per voi vendercelo. Né più né meno. Sono elaborati sistemi con cui vengono raccolti, elaborati ed analizzati importanti quantità di dati che permettono di capire cosa vuole il pubblico. 

Capito quello, gli stessi social permettono di veicolare il singolo prodotto (non solo materiale non fraintendete, può essere anche un servizio oppure anche il solo intrattenimento) verso coloro che quel prodotto lo vogliono tanto. 

Perché quel prodotto è fatto per la loro bolla. E siccome i nostri amici sono nella nostra bolla anche loro saranno esposti a quel prodotto. E sia noi che i nostri amici vedremo quel prodotto nei nostri social e ne parleremo e, quindi, ci convinceremo che quel prodotto ci serve e, alla fine dei conti capitalistici, lo compreremo.

Questo sono i social. Certo ci sono anche le foto della vacanza che hanno fatto gli amici. Ma il volume di contenuti di cui fruiamo, condiviso dalla nostra cerchia di amici reali, fisici, è nettamente inferiore a quello dei contenuti che la nostra bolla ci propone.

Metti tutto in dubbio

Essere consapevoli che i social non sono quello che sembrano è il primo tassello del discorso.

Armati della consapevolezza di che cosa sono i social, possiamo fare un passo quasi da Buddha.

Mettere in dubbio tutto. Tutti i contenuti. E nel metterli in dubbio fruirli come persone e non come consumatori. 

L’idea non è dare attenzione spasmodica a ogni contenuto che fruiamo, bensì solo a quelli che risuonano con noi, che ci fanno guizzare un pensiero oltre al “ah, figo”. I contenuti che in qualche maniera ci catturano sono quelli da vagliare bene.

Sui social non c’è il curriculum di chi ha creato il post. In quei casi, nei casi di post che in qualche modo ci attirano, è lì che serve spendere del tempo e dell’attenzione. Bello il contenuto, ma chi lo ha divulgato? È attendibile? I contenuti del nostro campo sono facili da vagliare. 

Appena vedo un contenuto di natura giuridica capisco al volo se è divulgativo, se è preciso o approssimativo, se è pubblicitario. Non mi serve tanto tempo. Ma sui post della mia zona di interesse mi rendo conto che a volte guardo senza filtro e prendo per oro colato quello che vedo o ascolto.

Se il contenuto è un micro video di Barbero sul medioevo, posso stare abbastanza tranquillo. Ma quando si parla di quotidiano? Quel post che mi consiglia di riciclare i fondi di caffè come fertilizzante, è attendibile? Io non so niente di piante né di fondi di caffè. Ma lo vedo e mi fido. 

Quel post che mi suggerisce di comprare lo spazzolino elettrico perché ha un footprint inferiore allo spazzolino normale a parità di igiene dentale è attendibile? Quelle mille statistiche che escono quotidianamente, sono attendibili o il campione di riferimento non è stato ben selezionato?

Questo è il baco degli algoritmi. Non filtrano per attendibilità. Il contenuto tragicomico sulla dieta, quello in cui qualcuno condivide la propria personalissima esperienza con la dieta, quello del personal trainer che parla di dieta e quello del dietologo che parla di dieta, hanno tutti a che fare con la dieta. E se la dieta è nella mia bolla, avranno tutti la stessa visibilità.

Parental control, ma per conto nostro

Quando ero piccolo non esistevano, ovviamente, né lo streaming né la tv on demand. Esistevano i classici canali televisivi, dall’ 1 al 9, e probabilmente l’8 era MTV e il 9 era un canale locale. Una sera a settimana ciascun canale (o quasi) presentava una prima visione. Un film uscito dal cinema che veniva proiettato, in mezzo a milioni di pubblicità, in televisione. 

I primi film li guardavo con mamma e papà, seduti a fianco. E quando c’era la scena cruenta o piccante o qualcosa che poteva “turbare” un giovanissimo Andrea, avevo la mamma. Diceva “è tutto finto eh, è vivo quell’attore”, oppure “è tutto finto è, si baciano ma perché sono attori, in realtà non si amano davvero”. 

Poi, col tempo, la cultura di massa è degenerata, i genitori non erano più in grado di selezionare i film per i propri figli, e hanno iniziato a mettere i bollini. Verde era un film per tutti, bambini compresi, giallo era per bambini che avevano a fianco la mamma che tappava gli occhi con la mano in caso di bisogno, rosso era “se lo fai vedere a tuo figlio sei un genitore degenere”.
Con i social non abbiamo né la mamma che ci ricorda che è tutto finto né il bollino. Servirebbero entrambi. In assenza, dobbiamo imparare a leggere tra le righe da soli.

Leggiamo

Sono in una fase di cambiamento. Mi assesto in nuovi equilibri e in nuove dinamiche. È un sfida, ma anche un’occasione. Metto a fuoco tante cose. Dalle più banali alle più importanti (credo). In questo scenario di cambiamento, riscopro vecchi interessi e vecchie passioni.

Mi sono impallato con la lettura. Leggo da sempre ogni cosa. Ho una regola. Di giorno leggo saggistica, la sera, a letto al calduccio, leggo narrativa. C’è un confine dato dalle coperte credo. Ma comunque leggo molto. O almeno credevo. Di recente ho scoperto che leggo male, almeno la saggistica. In realtà so come leggere, l’ho imparato, ma non ho mai pensato di fare altrettanto nella vita da adulto. Mi spiego. A scuola hai i libri, ciascuno dedicato a una materia. E quanto li leggi, non li leggi e basta, li studi. È questo il modo per imparare. Sottolinei, annoti, fai schemi e così via. Ma perché non facciamo altrettanto con i libri che leggiamo nel corso della vita? Sono incappato in Ryan Holiday. Uno scrittore, stoico, che viene citato in innumerevoli video su YouTube sull’argomento lettura. Lui legge un sacco, la sua libreria fa invidia, ma al tempo stesso consuma i libri. Un pensiero strano ora che ci penso. Consumare i libri. Nell’epoca del consumismo, sembra strano farlo con qualcosa di sacro come “i libri”. Ebbene lui non li legge, li strizza come spugne e ne trae il succo. Come? Banalmente, sottolinea. La mia mamma mi ha trasmesso un senso di venerazione per le pagine scritte. Un senso di rispetto e di cura. I libri non vanno rovinati, se vuoi sottolinei a matita, la copertina comunque deve essere integra e così via. Il libro doveva essere letto, si, ma anche passabile di essere un oggetto di arredamento. Godibile in bella vista in salotto. E io le ho creduto. Mi son fidato del genitore. Si sbagliava e io ho imparato una lezione sbagliata. Se torno ai miei anni di studio (sono stato uno studente pessimo) mi accorgo che ho imparato distruggendo i libri. Avevo una serie di evidenziatori. Ovviamente di colori diversi. Il giallo per le cose importanti. L’arancione per i principi giuridici (uguaglianza, trasparenza, buona fede e così via). Il blu era per le sentenze. Il verde…. non ricordo per cosa fosse il verde, ma aveva senso. Poi non ho fatto altrettanto per il resto degli studi della mia vita. Quelli che non sono “comandati”, come i sacramenti, ma che sono frutto di mie scelte. I libri che mi erano imposti di studiare li distruggevo di appunti, evidenziature, note e schemi. I libri che IO ho scelto per la MIA crescita personale invece: intonsi. Cosa mi resta di quei libri? Cosa mi resta delle pagine che ho scelto di leggere? Vaghi ricordi, sensazioni. Quindi questa sera ho seguito i consigli trovati online, quelli che non portano nessun danno ma che potrebbero portare un gran guadagno. Ho letto 25 pagine di un libro che ho li, sullo scaffale, e che sono mesi che non finisco. E mentre leggevo ho sottolineato a penna. C’è voluto coraggio. Il bambino che è in me ha disubbidito alla mamma.

Poi, quando un passaggio mi ha fatto ridere e ho scritto “hahahah” sul lato della pagina, mi son sentito libero, perché quelle pagine erano improvvisamente mie. Libero di dire la mia tra quelle righe.

Non più passivo spettatore di una storia che presto dimenticherò, ma attivo partecipe della conversazione con l’autore. Il risultato finale è che invece di lasciare il libro sullo scaffale ho letto 25 pagine. Ed è già un successo. Ho anche imparato che a volte confondiamo diktat con vere regole, e che in realtà sono solo modi di vedere il mondo. Ho imparato che può esserci un mio modo, magari ispirato da e ad altri, ma comunque mio. In qualche modo sembra che io abbia imparato a leggere. Di nuovo.

Il mio consiglio? Scegliete un libro che avreste sempre voluto leggere. Compratelo (in cartaceo non in digitale) mettetevi a leggerlo con una penna in mano. Sottolineate ogni riga che risuona con e in voi. Prendete appunti, rovinate il libro. Se si rovina troppo, lo potete ricomprare. Consumate le parole scritte come fossero benzina per il vostro futuro. Prendete appunti. Non perché dovete, ma perché vi va di farlo. Non c’è una regola, non c’è un modo, non c’è giusto o sbagliato. Ma fidatevi, con un libro davanti e una penna in mano, vi verrà naturale. Non credevo sarebbe stato così liberatorio e illuminante. Fate un tentativo. Nella peggiore delle ipotesi, avrete letto tra le righe.

UN NUOVO INIZIO: ONESTÀ

Ho sempre detto che amo scrivere. Non ho scelto un lavoro lontano dalla scrittura infatti, sono un avvocato. Il neo dell’essere un avvocato è l’assorbimento che la professione esercita sulla tua vita. Ogni momento, o quasi, è assorbito dalla professione e dai suoi doveri carichi di responsabilità. Dal 2019 ad oggi ho dedicato talmente tanto al mio lavoro da aver eliminato tante piccole grandi gioie dalla mia vita. Fare foto e video, suonare l’ukulele e perfino la scrittura. Ho chiuso i mille blog che avevo e soprattutto il più strutturato che oggi, qui, un po’ rinasce. No non come la fenice, ma come uno zombie. Perché quando elimini la qualità della vita per concentrarti su un’unica cosa che ti da molto ma a un prezzo altissimo, è così che diventi: uno zombie. Uno zombie che funziona, che opera e produce ma non vive. Quindi provo a tornare a scrivere, con uno fine anche terapeutico non lo nego. Proverò ad alimentare l’Andrea adolescente, che scriveva di getto, pubblicava e si preoccupava dopo dell’editing. Proverò anche a farmi coraggio e a scrivere e condividere contenuti che per qualche tempo ho temuto di fare miei. Vedete ho una visione cavalleresca del mio lavoro. Il fare parte di un Ordine mi riempie di orgoglio e al tempo stesso mi fa vivere una pressione importante. Nella mia testa mi freno e mi censuro molto spesso perché “un avvocato no dovrebbe dire questo”. Questa volta vogli ricordarmi quello che difendo. La nostra Costituzione recita “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.” (Art. 21 Cost.). Farò appello a questo valore e farò del mio meglio per conciliare le mie opinioni, gusti e pensieri con i miei doveri nati e che vivo per via della professione che ho scelto e amo. Detto questo, leggete tra le righe.