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Social network: ancora una volta una questione di consapevolezza

Consapevolezza vuol dire anche vedere le cose per quello che sono. Noi stessi, gli altri, la realtà. Abbiamo gli occhiali per mettere a fuoco la vista, per tutto il resto serve cultura e crescita personale.

Non voglio fare la classica ramanzina de “i social network sono il male”. Non lo sono. Ma un articolo su il Post  mi ha solleticato una riflessione.

Anche il contenuto condiviso con le migliori intenzioni non sempre porta a casa i migliori risultati. I social ci espongono ogni giorno a una quantità di informazioni non misurabile, e anche se lo fosse sarebbe un numero talmente enorme da non avere particolare rilevanza. Ne ha parlato Internazionale e i numeri sono, come dicevo, assurdi. 

Ora queste informazioni le dividerei, per intuito, in tre categorie.

La prima è il nostro campo. Argomenti di cui sappiamo molto o che sono il nostro pane quotidiano. I contenuti su tali argomenti sono a rischio zero. Nella peggiore delle ipotesi sono informazioni che già abbiamo o sono spunto di approfondimento. 

Poi abbiamo la nostra zona di interesse. Forse sono i contenuti più pericolosi, quelli in cui abbiamo una conoscenza superficiale, che ci attirano, ma su cui non abbiamo abbastanza conoscenza per avere una fruizione critica.

Nella terza categoria metto i contenuti alieni. Quelli che sono proprio fuori da ogni nostra conoscenza o che al massimo risvegliano qualche reminescenza da liceo, come la tettonica a placche (che sembra una brutta parola ma non lo è, perché è scientifica). 

Una generosa dose di consapevolezza

L’articolo de il Post suggerisce che la condivisione di contenuti sul tema della salute mentale è, da un lato, meritevole perché contribuisce a eliminare lo stigma e ad aumentare la consapevolezza sull’argomento. Dall’altro potrebbe esacerbare “l’ipocondria” e l’autodiagnosi su temi tanto spinosi quanto sfuggenti come la salute mentale.

Questo mi ha portato ad alcune riflessioni, riducibili a una sola, a ben vedere: anche nel fruire dei contenuti dei social network serve un massiccio impiego di consapevolezza. Occorre avere ben chiaro cosa sono i social network oggi, cosa contengono, come lo divulgano e soprattutto che servirebbe un disclaimer del tipo “non provateci a casa”.

Tutto questo potrebbe passare attraverso una cultura di base sul marketing, la comunicazione e l’uso dei social network, argomenti che, sulla base di una banalissima e inattendibile esperienza personale, non credo vengano approfonditi e neppure avvicinati dai più. 

I social sono una bolla digitale. È un tema trito e ritrito. Non ci espongono alle informazioni disponibili ma a quelle informazioni che “l’algoritmo” ha scelto per noi. I contenuti di cui fruiamo non sono “tutti” i contenuti ma solo quelli che ci fanno restare sulla piattaforma. 

Gli algoritmi sono sempre più efficienti e rapidi nel tracciare i profili degli utenti. Forse anche a causa della nostra poca attenzione alla privacy e alle varie (chilometriche) condizioni di utilizzo, riescono ad attingere a un numero considerevole di informazioni che ci riguardano. Tracciano un profilo esattamente come fanno gli agenti del FBI nelle serie tv quando cercano un serial killer. 

Sulla base del nostro profilo ci propongo e quindi fanno “vedere” i contenuti che, secondo l’algoritmo, massimizzano la nostra presenza sul social in questione. Questa è la bolla, è la sua magia e la nostra gabbia. Ci mostra quello che vogliamo e, per sottrazione, non ci mostra quello che non vogliamo.

Social network o social media?

La bolla nasce perché i social non sono quello che dovrebbero essere. Non so dire se non lo sono mai stati o se hanno smesso di esserlo. Ai tempi di MSN o MySpace erano certamente qualcosa legato alla comunicazione e alla personalità.

Oggi sono tutt’altro e anche di questo bisogna essere consapevoli. I social sono uno strumento per capire che prodotto vogliamo, per voi vendercelo. Né più né meno. Sono elaborati sistemi con cui vengono raccolti, elaborati ed analizzati importanti quantità di dati che permettono di capire cosa vuole il pubblico. 

Capito quello, gli stessi social permettono di veicolare il singolo prodotto (non solo materiale non fraintendete, può essere anche un servizio oppure anche il solo intrattenimento) verso coloro che quel prodotto lo vogliono tanto. 

Perché quel prodotto è fatto per la loro bolla. E siccome i nostri amici sono nella nostra bolla anche loro saranno esposti a quel prodotto. E sia noi che i nostri amici vedremo quel prodotto nei nostri social e ne parleremo e, quindi, ci convinceremo che quel prodotto ci serve e, alla fine dei conti capitalistici, lo compreremo.

Questo sono i social. Certo ci sono anche le foto della vacanza che hanno fatto gli amici. Ma il volume di contenuti di cui fruiamo, condiviso dalla nostra cerchia di amici reali, fisici, è nettamente inferiore a quello dei contenuti che la nostra bolla ci propone.

Metti tutto in dubbio

Essere consapevoli che i social non sono quello che sembrano è il primo tassello del discorso.

Armati della consapevolezza di che cosa sono i social, possiamo fare un passo quasi da Buddha.

Mettere in dubbio tutto. Tutti i contenuti. E nel metterli in dubbio fruirli come persone e non come consumatori. 

L’idea non è dare attenzione spasmodica a ogni contenuto che fruiamo, bensì solo a quelli che risuonano con noi, che ci fanno guizzare un pensiero oltre al “ah, figo”. I contenuti che in qualche maniera ci catturano sono quelli da vagliare bene.

Sui social non c’è il curriculum di chi ha creato il post. In quei casi, nei casi di post che in qualche modo ci attirano, è lì che serve spendere del tempo e dell’attenzione. Bello il contenuto, ma chi lo ha divulgato? È attendibile? I contenuti del nostro campo sono facili da vagliare. 

Appena vedo un contenuto di natura giuridica capisco al volo se è divulgativo, se è preciso o approssimativo, se è pubblicitario. Non mi serve tanto tempo. Ma sui post della mia zona di interesse mi rendo conto che a volte guardo senza filtro e prendo per oro colato quello che vedo o ascolto.

Se il contenuto è un micro video di Barbero sul medioevo, posso stare abbastanza tranquillo. Ma quando si parla di quotidiano? Quel post che mi consiglia di riciclare i fondi di caffè come fertilizzante, è attendibile? Io non so niente di piante né di fondi di caffè. Ma lo vedo e mi fido. 

Quel post che mi suggerisce di comprare lo spazzolino elettrico perché ha un footprint inferiore allo spazzolino normale a parità di igiene dentale è attendibile? Quelle mille statistiche che escono quotidianamente, sono attendibili o il campione di riferimento non è stato ben selezionato?

Questo è il baco degli algoritmi. Non filtrano per attendibilità. Il contenuto tragicomico sulla dieta, quello in cui qualcuno condivide la propria personalissima esperienza con la dieta, quello del personal trainer che parla di dieta e quello del dietologo che parla di dieta, hanno tutti a che fare con la dieta. E se la dieta è nella mia bolla, avranno tutti la stessa visibilità.

Parental control, ma per conto nostro

Quando ero piccolo non esistevano, ovviamente, né lo streaming né la tv on demand. Esistevano i classici canali televisivi, dall’ 1 al 9, e probabilmente l’8 era MTV e il 9 era un canale locale. Una sera a settimana ciascun canale (o quasi) presentava una prima visione. Un film uscito dal cinema che veniva proiettato, in mezzo a milioni di pubblicità, in televisione. 

I primi film li guardavo con mamma e papà, seduti a fianco. E quando c’era la scena cruenta o piccante o qualcosa che poteva “turbare” un giovanissimo Andrea, avevo la mamma. Diceva “è tutto finto eh, è vivo quell’attore”, oppure “è tutto finto è, si baciano ma perché sono attori, in realtà non si amano davvero”. 

Poi, col tempo, la cultura di massa è degenerata, i genitori non erano più in grado di selezionare i film per i propri figli, e hanno iniziato a mettere i bollini. Verde era un film per tutti, bambini compresi, giallo era per bambini che avevano a fianco la mamma che tappava gli occhi con la mano in caso di bisogno, rosso era “se lo fai vedere a tuo figlio sei un genitore degenere”.
Con i social non abbiamo né la mamma che ci ricorda che è tutto finto né il bollino. Servirebbero entrambi. In assenza, dobbiamo imparare a leggere tra le righe da soli.

Perché scrivo ancora su carta le mie to-do list

Lo so, lo so. Uno dei temi più caldi degli ultimi decenni è sicuramente il cambiamento climatico. Il gioco di parole è voluto. La deforestazione è tra le conseguenze più deleterie che abbiamo fatto patire al nostro pianeta, fenomeno alimentato, anche, dall’industria della carta. Quindi, per anni, ho cercato di essere il più paperless possibile. Non è una sfida impossibile e anzi, continuo a usare il digitale. Esiste un “ma” e Tyrion Lannister disse che tutto quello che viene prima del “ma” va ignorato. 

Il digitale porta con sé una serie di vantaggi che non possono essere ignorati. Per come sono creati i servizi digitali, oggi rispondono quasi a ogni esigenza. Sono multipiattaforma, disponibili per dispositivi mobili e personal computer o tramite “banali” siti web. Il risultato è che, non importa dove, come e quando sei, hai i tuoi contenuti.

Per contenuti intendo almeno tre cose. I documenti/file, l’agenda e il motivo principale per cui scrivo questo articolo: la lista delle cose da fare

La lista delle cose da fare è stata, ed è tuttora, un’ossessione. Avere da qualche parte una precisa linea da seguire su cosa fare e quando è per me – e credo per tutti – più che necessaria. In realtà, prestando attenzione ai nostri pensieri, ci accorgiamo che la maggior parte delle cose che facciamo sono “automatiche” e frutto di una checklist che è nella nostra mente. 

Dove fare la lista delle cose da fare

Ma questa lista, dove la tengo? In una delle mille app, sempre disponibile ovunque e comunque? Per anni ho tentato di utilizzarne qualcuna e le ho provate tutte o quasi. Ho perso ore su YouTube ad ascoltare sermoni su quale fosse quella migliore. 

La mia opinione non richiesta è che nessuna app è migliore. Fanno tutte la stessa cosa, alcune con un modo per noi più intuitivo di altre. Ho abbandonato le app mille volte e probabilmente continuerò a farlo, nell’estenuante ricerca del “modo migliore per fare le cose”. 

Ora, il modo migliore per fare le cose è farle. A fine giornata, lo strumento che mi fa davvero portare a termine le task (ciao Milano) è carta e penna.  È il modo migliore anche perché mi fa venir voglia di farLe le cose. Nello specifico, per me è un santissimo quaderno. 

I vantaggi della to-do list su carta (e penna)

Scrivere la lista delle cose da fare a penna sulla carta ha una serie di vantaggi che il digitale non potrà mai eguagliare.

Scrivere sulla carta richiede più tempo. È meno immediato. Le maiuscole non appaiono in automatico. In parte ti costringe a stare con quello che stai scrivendo, ad essere presente. Il digitale è più labile e c’è una distanza fisica e cognitiva tra le tue dita che colpiscono un oggetto e le parole che appaiono in un’altra parte dello stesso oggetto. 

Se scrivi a penna no, le parole sono una diretta conseguenza del tuo movimento. Mi direte, è la stessa cosa scrivendo sulla tastiera. No. Non ho una spiegazione, non ho una ragione logica e vi dirò semplicemente no. 

Esistono molti articoli, anche pubblicazioni scientifiche, che dimostrano, o almeno argomentano, che scrivere a penna un concetto aumenta la probabilità di ricordarcelo. Non starò a citarli, non ne ho voglia e poi dovrei cercarle e ora invece voglio scrivere (in digitale!).

Se poi fai una lista delle cose da fare su carta hai una soddisfazione e una frustrazione che ti aiuteranno. La gioia che provi nel depennare qualcosa a mano non sarà mai eguagliata da nessun tap su nessuna app. 

Forse è perché, malgrado l’accelerata che avuto la tecnologia, continuiamo (almeno per i primi anni di scuola) a scrivere su carta. Questo crea un legame (credo) tra il nostro modo di imparare e memorizzare – e forse anche di dare valore alle informazioni – e la carta. 

Scrivere una to-do list che ti aiuta davvero a fare le cose

Non ho una lista di cose da fare infinita che spunto, anzi in realtà sono molto più sadico. Ho una lista di cose da fare in una giornata. So bene che non le farò tutte. Dedico una pagina a ogni giornata e scrivo tutte le cose che devo fare. Quelle che faccio le spunto, quelle che non faccio, le devo ritrascrivere nella pagina successiva, per farle il giorno dopo. 

Il risultato è che così mi stimolo (in modo sadico l’ho detto) a chiuderle, così posso smettere di riscriverle più e più volte, giorno dopo giorno. È un lavoro di auto-logorio che però mi fa portare a termine le cose

E anzi, se una data attività la trascrivo da talmente tanto tempo che ‘manco mi ricordo perché era importante farla, a un certo punto capisco che può non essere fatta, che se fosse importante l’avrei già depennata. Quindi smetto di trascriverla. So cosa state pensando e no, non mi è mai successo che una cosa abbandonata a sé stessa nel passato delle trascrizioni tornasse a perseguitarmi. 

Quindi, carta e penna per sempre? Come ho detto continuerò a provare le varie app e continuo a sperare un giorno di poter abbandonare la carta. Giusto per mettere a posto la mia coscienza e poter dire di essere un umano paperless. 

Già essere un umano è un’affermazione importante, comunque. 

Affidare i pensieri alla carta è diverso

Tutto questo ha senso se parliamo “solo” di produttività. Ma non siamo macchine che eseguono compiti, siamo persone che vivono. Non sono mai stato un amante della distinzione netta tra vita e lavoro (non si smette di vivere quando si lavora) ma, se un confine c’è, è tra ciò che facciamo perché dobbiamo (e qui rientra anche stirare e lavare i piatti, non solo l’ennesima pratica che ci ha affibbiato il capo) e ciò che facciamo perché vogliamo (anche quella pratica che abbiamo chiesto al capo di farci seguire). 

Le to-do list app non ci permettono di tenere traccia di questo, della vita. Su un quaderno puoi annotare infinite informazioni, rilevanti e irrilevanti, che compongono la tua vita. Come ti senti. Se hai seguito la dieta. Se sei felice di aver chiesto un aumento. Se sei triste perché fuori piove. Puoi annotare che il tuo superiore ti ha fatto un complimento per un lavoro e far diventare quello un modello per i tuoi prossimi lavori. Puoi annotare che hai preso l’aspirina alle 12 e quindi la prossima la devi prendere 6 o 8 ore dopo. 

Sulla carta c’è lo spazio per raccontare la vita. E quando le pagine del tuo quaderno saranno finite, potrebbero essere un diario che un giorno sfoglierai rievocando ricordi. 

Potrai leggere tra le righe delle tue parole e non diventeranno mai obsolete. Quella carta non smetterà mai di ricevere assistenza o aggiornamenti. Non perderai quello che conserva perché avrai dimenticato la password. Esiste una solidità del materiale che perdura nel tempo che il digitale non sarà mai in grado di eguagliare. 

Non so bene da quanto tempo l’umanità affida la propria conoscenza e i propri pensieri alla carta, all’analogico. Affidiamo le nostre vite al digitale da talmente poco e con così scarsi risultati in termini di lungimiranza che faremmo torto alla nostra storia, ai nostri antenati, nell’abbandonarla. 
E il paperless? E il cambiamento climatico? E la deforestazione? Esistono e sono problemi di cui dobbiamo essere consapevoli e che dobbiamo affrontare. La domanda tra le righe con cui vi lascio, però, è: quanto inquina il server su cui è memorizzata la nostra lista digitale di cose da fare?

Come da avvocato archivio i documenti

La conoscenza è il fulcro della professione dell’avvocato. Acquisire, conservare e usare la conoscenza è il pane della professione. La conoscenza può assumere tante forme ma, nel nostro mestiere, ne prende una particolare.
Ho un metodo semplice per archiviare i documenti che migliora non solo la vita lavorativa ma anche quella personale.
Quando ogni cosa è al suo posto, il tempo per cercarla è zero.

Sono sempre stato restio a scrivere sulla professione. Non mi sento mai all’altezza. La vocina nella mia testa dice: “Sei avvocato da l’altro ieri e vuoi insegnare come si fa agli altri?”. Ma perché insegnare? No, parliamo di condividere. Vi racconto come gestisco un pezzetto del mio lavoro e se qualcuno ne trarrà beneficio tanto meglio.

Ora, è vero che quello che sto per scrivere è frutto di esperienza diretta nel mondo legale, quindi sembra utile solo agli avvocati. In realtà, caro lettore, potrebbe tornarti utile comunque.

Il problema di ricevere e archiviare documenti

Come avvocato ricevo e devo archiviare e conservare un gran numero di informazioni. Se un tempo il problema era la quantità di carta da dover conservare, oggi il problema è la quantità di file. Perché, con l’avvento del “telematico”, la quasi totalità del lavoro si fa in digitale. Quindi, ricevo una quantità infinita di email, con allegati un quantità infinita di file. Poi fai le ricerche, scarichi , dai vari siti istituzionali, le visure camerali e i certificati anagrafici. Poi magari la causa è durata anni, e sei al termine del secondo grado. Hai una sentenza vittoriosa e devi notificarla. E di nuovo fai un’altra visura in camera di commercio o estrai un altro certificato anagrafico. Giusto per controllare ed essere sicuro che stai notificando nel posto giusto. Oppure i clienti vogliono una consulenza su un contratto. Quindi scambi con loro, o con un collega, varie versione dello stesso testo, che via via si affina e prende forma. Di quanti file parliamo? Quanti documenti in formato digitale dobbiamo conservare e archiviare?

Ora ci sono due scenari. Uno è il caos. Quello dove si salva tutto in unico posto, (si spera) in una cartella dedicata ad una pratica, e ogni volta si perde del tempo a cercare quello che serve. L’altro è un metodo che non salva ma la semplifica. Un metodo fatto di due elementi: pazienza e disciplina.

Insomma bisogna seguire le regole. E noi avvocati siamo bravi a seguirle.

La resistenza al cambiamento

So bene che ognuno di noi ha un suo modo di salvare i documenti. L’idea di abbandonarlo per un altro sistema non solo terrorizza ma proprio non lo consideriamo. Il cambiamento significa incertezza e, nel nostro lavoro, incertezza significa errore. Errore significa terrore e distruzione perdita di reputazione, perdita di clienti, attivare la polizza, essere un* fallit* e cosi via. Perchè questi sono i pensieri di un avvocato medio. Sbagliare non è contemplato.

Bene, vi offro un’idea. La scrivo qui, di seguito. Se poi vi piace la seguite se invece non fa per voi amen.

Cambiare metodo di archiviazione dei documenti

Molti di noi, all’inizio della carriera, o sono nello studio in cui hanno svolto la pratica oppure sono nello studio di un qualche collega. Avviarsi alla carriera da soli è più che difficile. Quindi, magari nello Studio in cui ci troviamo esistono metodi di archiviazione che resistono da anni. Chi siamo noi per cambiarli?

Non si sa mai. Nelle prossime righe potreste leggere banalità, ma fidatevi, sono tanti gli avvocati che non hanno messo in campo soluzioni semplici come quelle che sto per suggerire.

Archivia numerando le pratiche

Il primo passo da fare è numerare le pratiche.

Si, sembra assurdo ma alcuni si affidano al semplice ordine alfabetico. Un buon sistema che non funziona. Per due ordini di motivi. Il primo è che potresti trovarti sul tuo sistema di archiviazione (può essere il tuo pc, un hard-disk esterno, un nas o addirittura un server condiviso)  la pratica di Tizio, vecchia chiusa e definita, a fianco alla pratica di Sempronio, il cui incarico è stato conferito l’altro ieri. L’ordine alfabetico non tiene in considerazione un elemento fondamentale del nostro lavoro. Il tempo. Numerare le pratiche in ordine crescente, con un semplice numero (e magari un suffisso ma ne parleremo un’altra volta), le mette letteralmente in “ordine”. Dalla più vecchia alla più recente. Così eviteremo di copiare dalle pratiche che sono troppo risalenti.

Ogni pratica avrà un numero dalla 1 alla N.

Quindi ogni pratica avrà una sua cartella dove confluirà tutto. I documenti. Le email. Le PEC. I preventivi. E così via. Quella cartella avrà questo nome:

26 – Tizio

Perché 26? Perché è il giorno del mio compleanno. La cartella “25 – Caio” non mi piaceva e la cartella “27 – Sempronio” è una pratica troppo onomatopeica: “venTiSeTTeSempronio”.

Archivia e data i file AAAA.MM.GG

Bene, abbiamo la nostra cartella dedicata ad una singola pratica: la 26 – Tizio.
Il vero metodo arriva ora.
Ogni file che entra nella cartella è nominato con un metodo preciso e che non può mai essere sgarrato.

Prima il numero della pratica. Poi la data al contrario. Poi la descrizione di cosa è il file.

Quindi il contratto, conclusosi il 5 marzo 2023, che Tizio ci ha mandato, e che dimostra che Caio deve adempiere a una certa obbligazione sarà:

26 – 2023.03.05 – Contratto Tizio e Caio

La data è al contrario. Non si usa il formato giorno.mese.anno, ma il formato opposto: anno.mese.giorno.

Perché, indipendemente dal sistema operativo che in uso (Microsoft, Apple, Ubuntu) quando metteremo in ordine alfabetico i file, in una cartella, saranno automaticamente anche in ordine cronologico.

Allo stesso modo se Tizio (mio cliente) mi ha inoltrato in allegato la email del 2 febbraio 2024 con cui Caio riconosce il proprio debito la salverò come:

26 – 2024.02.02 – email Caio@Tizio riconoscimento credito

Sfruttate i simboli e sperimentate in questo senso. @ è di immediata percezione, come una comunicazione via email o simile, da qualcuno @ qualcuno.

In questo modo i documenti saranno ordinati in ordine cronologico e vi sarà anche più semplice scovare (tra i tanti file) la versione più recente.
Ho accennato all’ipotesi in cui inizia una causa, si fa una visura camerale oppure si estrae un certificato anagrafico, per poter procedere alla notifica dell’atto di citazione (o del ricorso, o del decreto ingiuntivo, fate voi). Poi passano gli anni, i gradi di giudizio, e dovete fare un’altra notifica e quindi ripetete le notifiche.

Se il nome del file riporta la data e non solo, se la visualizzazione nella cartella vi farà vedere in alto la visura/certificato più recenti, sarà certamente più facile.

Potremmo avere una situazione del tipo:

26 – 2024.05.28 – Visura Caio

26 – 2023.04.05 – Visura Caio

Usate gli zeri per dare due caratteri anche ai giorni e i mesi a cifra singola. In questo modo “l’impaginazione” nella cartella sarà identica e non dovrete interpretare il dato.

Il risultato finale è che, mentre scrivere gli atti, avrete a disposizione una cartella in ordine cronologico, e potrete attingervi immediatamente. Dall’altro lato, ogni file avrà la sua posizione, non solo entro una pratica, anche nel tempo.

La legge è un modo per ottenere e garantire ordine, e la giustizia ne è il ripristino.

Capisco che il metodo che vi propongo richieda tempo. Nell’immediatezza vi sembrerà frustrante dover rinominare ciascun file. Ma se ci pensate quanto le pratiche non erano telematiche era doveroso (se non necessario) mettere in ordine il “fascicolo”. Oggi ci sembra una perdita di tempo rinominare documenti informatici quando in realtà , tenere in ordine le conoscenze che il cliente ci ha fornito al fine della miglior difesa, è parte del lavoro.

Portate pazienza e dopo la resistenza iniziale diverrà un metodo automatico, quasi necessario, al punto che inizierete ad usarlo anche nella vita privata, per rinominare il pagamento delle bollette o della rata del mutuo di casa.

Leggiamo

Sono in una fase di cambiamento. Mi assesto in nuovi equilibri e in nuove dinamiche. È un sfida, ma anche un’occasione. Metto a fuoco tante cose. Dalle più banali alle più importanti (credo). In questo scenario di cambiamento, riscopro vecchi interessi e vecchie passioni.

Mi sono impallato con la lettura. Leggo da sempre ogni cosa. Ho una regola. Di giorno leggo saggistica, la sera, a letto al calduccio, leggo narrativa. C’è un confine dato dalle coperte credo. Ma comunque leggo molto. O almeno credevo. Di recente ho scoperto che leggo male, almeno la saggistica. In realtà so come leggere, l’ho imparato, ma non ho mai pensato di fare altrettanto nella vita da adulto. Mi spiego. A scuola hai i libri, ciascuno dedicato a una materia. E quanto li leggi, non li leggi e basta, li studi. È questo il modo per imparare. Sottolinei, annoti, fai schemi e così via. Ma perché non facciamo altrettanto con i libri che leggiamo nel corso della vita? Sono incappato in Ryan Holiday. Uno scrittore, stoico, che viene citato in innumerevoli video su YouTube sull’argomento lettura. Lui legge un sacco, la sua libreria fa invidia, ma al tempo stesso consuma i libri. Un pensiero strano ora che ci penso. Consumare i libri. Nell’epoca del consumismo, sembra strano farlo con qualcosa di sacro come “i libri”. Ebbene lui non li legge, li strizza come spugne e ne trae il succo. Come? Banalmente, sottolinea. La mia mamma mi ha trasmesso un senso di venerazione per le pagine scritte. Un senso di rispetto e di cura. I libri non vanno rovinati, se vuoi sottolinei a matita, la copertina comunque deve essere integra e così via. Il libro doveva essere letto, si, ma anche passabile di essere un oggetto di arredamento. Godibile in bella vista in salotto. E io le ho creduto. Mi son fidato del genitore. Si sbagliava e io ho imparato una lezione sbagliata. Se torno ai miei anni di studio (sono stato uno studente pessimo) mi accorgo che ho imparato distruggendo i libri. Avevo una serie di evidenziatori. Ovviamente di colori diversi. Il giallo per le cose importanti. L’arancione per i principi giuridici (uguaglianza, trasparenza, buona fede e così via). Il blu era per le sentenze. Il verde…. non ricordo per cosa fosse il verde, ma aveva senso. Poi non ho fatto altrettanto per il resto degli studi della mia vita. Quelli che non sono “comandati”, come i sacramenti, ma che sono frutto di mie scelte. I libri che mi erano imposti di studiare li distruggevo di appunti, evidenziature, note e schemi. I libri che IO ho scelto per la MIA crescita personale invece: intonsi. Cosa mi resta di quei libri? Cosa mi resta delle pagine che ho scelto di leggere? Vaghi ricordi, sensazioni. Quindi questa sera ho seguito i consigli trovati online, quelli che non portano nessun danno ma che potrebbero portare un gran guadagno. Ho letto 25 pagine di un libro che ho li, sullo scaffale, e che sono mesi che non finisco. E mentre leggevo ho sottolineato a penna. C’è voluto coraggio. Il bambino che è in me ha disubbidito alla mamma.

Poi, quando un passaggio mi ha fatto ridere e ho scritto “hahahah” sul lato della pagina, mi son sentito libero, perché quelle pagine erano improvvisamente mie. Libero di dire la mia tra quelle righe.

Non più passivo spettatore di una storia che presto dimenticherò, ma attivo partecipe della conversazione con l’autore. Il risultato finale è che invece di lasciare il libro sullo scaffale ho letto 25 pagine. Ed è già un successo. Ho anche imparato che a volte confondiamo diktat con vere regole, e che in realtà sono solo modi di vedere il mondo. Ho imparato che può esserci un mio modo, magari ispirato da e ad altri, ma comunque mio. In qualche modo sembra che io abbia imparato a leggere. Di nuovo.

Il mio consiglio? Scegliete un libro che avreste sempre voluto leggere. Compratelo (in cartaceo non in digitale) mettetevi a leggerlo con una penna in mano. Sottolineate ogni riga che risuona con e in voi. Prendete appunti, rovinate il libro. Se si rovina troppo, lo potete ricomprare. Consumate le parole scritte come fossero benzina per il vostro futuro. Prendete appunti. Non perché dovete, ma perché vi va di farlo. Non c’è una regola, non c’è un modo, non c’è giusto o sbagliato. Ma fidatevi, con un libro davanti e una penna in mano, vi verrà naturale. Non credevo sarebbe stato così liberatorio e illuminante. Fate un tentativo. Nella peggiore delle ipotesi, avrete letto tra le righe.

UN NUOVO INIZIO: ONESTÀ

Ho sempre detto che amo scrivere. Non ho scelto un lavoro lontano dalla scrittura infatti, sono un avvocato. Il neo dell’essere un avvocato è l’assorbimento che la professione esercita sulla tua vita. Ogni momento, o quasi, è assorbito dalla professione e dai suoi doveri carichi di responsabilità. Dal 2019 ad oggi ho dedicato talmente tanto al mio lavoro da aver eliminato tante piccole grandi gioie dalla mia vita. Fare foto e video, suonare l’ukulele e perfino la scrittura. Ho chiuso i mille blog che avevo e soprattutto il più strutturato che oggi, qui, un po’ rinasce. No non come la fenice, ma come uno zombie. Perché quando elimini la qualità della vita per concentrarti su un’unica cosa che ti da molto ma a un prezzo altissimo, è così che diventi: uno zombie. Uno zombie che funziona, che opera e produce ma non vive. Quindi provo a tornare a scrivere, con uno fine anche terapeutico non lo nego. Proverò ad alimentare l’Andrea adolescente, che scriveva di getto, pubblicava e si preoccupava dopo dell’editing. Proverò anche a farmi coraggio e a scrivere e condividere contenuti che per qualche tempo ho temuto di fare miei. Vedete ho una visione cavalleresca del mio lavoro. Il fare parte di un Ordine mi riempie di orgoglio e al tempo stesso mi fa vivere una pressione importante. Nella mia testa mi freno e mi censuro molto spesso perché “un avvocato no dovrebbe dire questo”. Questa volta vogli ricordarmi quello che difendo. La nostra Costituzione recita “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.” (Art. 21 Cost.). Farò appello a questo valore e farò del mio meglio per conciliare le mie opinioni, gusti e pensieri con i miei doveri nati e che vivo per via della professione che ho scelto e amo. Detto questo, leggete tra le righe.